Uno studio rivela che la natura può essere la soluzione parziale per la lotta alla diminuzione di emissioni di gas serra e all’abbattimento di anidride carbonica presente in atmosfera. Se inizialmente può apparire insensato, in realtà non lo è: non si tratta di fantascienza, ma dell’impatto della natura e del suo utilizzo da parte uomo. Una gestione accurata di foreste, coltivazioni agricole e zone umide, permetterebbe la riduzione di ben 11,3 miliardi di tonnellate annue di emissioni di gas serra, ovvero il 37% della diminuzione di gas serra, il che limiterebbe a 2°C il riscaldamento globale entro il 2030.
Secondo uno studio pubblicato dagli scienziati ricercatori di Nature Conservancy, in stretta sinergia e collaborazione con ben 15 istituti per la conservazione dell’ambiente, il riscaldamento climatico è possibile rallentarlo e combatterlo. Management è la parola chiave. Se il problema principale è la presenza di massicci quantitativi di carbonio nella terra, in particolare nelle zone umide, nelle praterie, nei terreni agricoli e nelle foreste, a noi non serve altro che imparare a gestirle meglio. Non si tratta solo di intensità, costanza e determinazione nel voler incrementare queste azioni, ovviamente bisogna ragionare a trecentosessanta gradi, e pianificare una serie di interventi in vari ambiti: energia, finanza, trasporti, industria e infrastruttura, devono avere un obiettivo comune, quello di ridurre le emissioni entro il 2020. Le soluzioni naturali al cambiamento climatico sono di fondamentale importanza per poter garantire una decarbonizzazione e agevolare una crescita occupazionale nel rispetto e nella salvaguardia delle comunità, a prescindere dal loro livello di sviluppo sulla scala mondiale.
Queste e non solo queste, sono per Christiana Figueres, capo de UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) e coordinatrice di Mission 2020, le strade che dobbiamo percorrere se vogliamo fare qualcosa per questo mondo, che sfortunatamente stiamo rovinando consapevolmente con le nostre mani. La stessa sostiene che sia proprio lo sfruttamento territoriale il perno della lotta al cambiamento climatico, ed è qui che bisogna lavorare. Poiché sono proprio queste azioni di carattere quotidiano, come l’utilizzo e la malagestione dei territori, che non ci consentono di assorbire il carbonio dall’atmosfera e di abbassare le emissioni.
Ogni singolo cittadino ha la sua responsabilità e la possibilità di cambiare le cose, anche se in piccolissima misura, ma vediamo cosa possiamo fare concretamente accanto a questa battaglia che stanno combattendo tutti i Paesi del mondo.
Avere più alberi è sicuramente una chiave di volta, soprattutto perché non è un’operazione particolarmente costosa. E come tutte le prime lezioni di scienze fatte alle scuole elementari, si sa che gli alberi, come tutti i vegetali, assorbono anidride carbonica, per rilasciare nel corso delle ore successive ossigeno, e mano a mano che crescono, hanno il potere intrinseco di ridurre direttamente i gas serra.
Anche ri-alberare le aree disboscate ed evitare di distruggere quelle esistenti, è senza dubbio un intento da tenere in considerazione, ma qui spesso sono le grandi industrie e i grandi proprietari terrieri che devono fermarsi e riflettere sul loro operato e sulle operazioni che possono fare per l’azienda, dando uno sguardo più in là e pensando all’umanità. Attualmente gli appezzamenti di cui parliamo ricoprono circa 1/3 delle terre emerse, quindi una bella fetta di responsabilità.
L’agricoltura, ovvero l’11% della superficie globale della terraferma, interessa l’uomo e le sue attività lavorative e di sussistenza. Se si adottassero tecniche a basso impatto, si potrebbe trarre beneficio in maniera esponenziale, perché si ridurrebbero le emissioni di ben 22%, pari all’eliminazione di 522 milioni di auto. Anche i fertilizzanti chimici, se usati con cautela e criterio, ridurrebbero l’ossido di azoto.
Il 5% del globo invece è occupato dalle zone umide, in proporzione sicuramente minore di foreste o terreni agricoli, ma non bisogna dimenticare che il cambiamento climatico, incide in maniera più massiccia su queste zone umide, poiché di natura posseggono al loro interno una concentrazione maggiore di carbonio per ettaro di superficie.
Basti pensare alla bonifica dei terreni torbosi per lasciare spazio all’agricoltura o peggio all’olio di palma, che ci privano di 780 mila ettari/annui in grado di assicurare il sequestro di 678 milioni di T/anno di emissioni di carbonio entro i prossimi dodici anni.
Se ne è discusso lo scorso 6 novembre, a Bonn, si è tenuta la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul clima, chiamata anche COP23, ovvero 23esima Conferenza delle parti. Sul tavolo ci sono ancora svariati problemi e mettere in accordo i 160 paesi partecipanti non è per nulla semplice, anche perché ognuno di loro porta sul tavolo problematiche climatiche territoriali, ma ci sono problemi di fondo, legati alla rinuncia degli Stati Uniti di Trump, agli impegni presi alla Conferenza di Parigi, COP21.
Barbara Hendricks, Ministro dell’Ambiente tedesco, ha ribadito che l’accordo di Parigi è irreversibile, rimarcando a tutti i negoziatori che non vi è più molto tempo, quindi è necessario lavorare duramente e implementare l’accordo d’intesa. Gli interventi dunque sono possibili e hanno costi sostenibili, ora spetta a noi!
L’elaborato dello studio è interamente consultabile all’interno del sito della Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, al link http://www.pnas.org/content/114/44/11645
Mentre le decisioni prese dal 6 al 17/11/2017 a Bonn sono racchiuse in questo documento http://unfccc.int/resource/docs/2017/cop23/eng/l13.pdf